mercoledì 11 febbraio 2015

Quella volta che mi gridarono 'fascista'


Quella volta che mi gridarono alle spalle ‘Fascista’. Era l’11 febbraio 2011, e anche questa è una #storiadaraccontare. E ne parlo oggi perché è, in qualche modo, un anniversario, sgradevole, ma pur sempre un anniversario. I fatti: l’11 febbraio 2011, come ogni anno dal 25 aprile 1998, l’amministrazione comunale di Pescara ha organizzato la celebrazione e il ricordo dei 9 partigiani uccisi presso il Cippo di Colle Pineta, dove oggi si trova la scuola denominata, dal sindaco Carlo Pace, appunto, nel ’98, ’11 febbraio ‘44’, a perenne memoria dei 9 cittadini uccisi. Era di pomeriggio, intorno alle 15.30. Ero con l’assessore alla Pubblica Istruzione Roberto Renzetti. Le telefonate dell’ultimo minuto dalle auto di servizio, la chiamata agli uffici comunali per accertare che tutto fosse pronto, che l’orario fosse quello giusto, l’avviso alla dirigente scolastica per dire che si stava arrivando. Poi, l’ingresso dal cancello principale dell’Istituto, ma, anziché il normale e scontato saluto, seppur di circostanza, all’assessore, peraltro medico-chirurgo stimato all’ospedale civile di Pescara, comincia il brusio. Un concitato brusio, prima sottovoce, poi sempre più udibile, nessuna mano tesa per il saluto, fino a quando arriva col fiatone la dirigente e…manca la corona che i bambini devono deporre ai piedi del Cippo con le Istituzioni al seguito. Vabbè, il fiorista sarà in ritardo, avrà sbagliato scuola, sarà bloccato nel traffico dell’uscita dalle scuole, sarà per strada. No, no: manca proprio la corona. Vabbè, telefoniamo alla segreteria del sindaco, sicuramente ne sapranno di più, perché non è possibile che manchi la corona per una cerimonia che si svolge ogni anno, sempre uguale, sempre nella stessa scuola, sempre con lo stesso fiorista, dal 1998, ossia, all’epoca, da tredici anni. La segreteria del sindaco esegue un piccolo controllo: la corona è stata ordinata, è stata pagata, dev’esserci per forza. La telefonata alla segretaria dell’assessore Renzetti: la corona è stata ordinata, è stata pagata, dev’esserci per forza. Ma la corona non c’è. E allora, la segretaria dell’assessore scende nell’ufficio dell’Economato del Comune, il luogo per eccellenza da cui partivano e partono gli ordini per la minuta spesa e che, materialmente, aveva e ha l’onere di far arrivare fiori, piante, e altre bazzecole di minimi importi. Un Economato-roccaforte dalfonsesca, ed è qui che emerge l’intoppo: sì, sì, la corona è stata ordinata, è stata pagata, ma…la cerimonia non era domattina (il 12 febbraio, per una scuola che si chiama ‘11 febbraio’?!). Ecco, il povero fiorista sapeva di doverla portare, ma sul mandato dell’Economato c’era scritto il 12 febbraio, anziché l’11, mandato anch’esso firmato da un’altra dipendente, oggi pensionata, anche lei, guarda caso, puntadidiamante dalfonsiana, che pure eseguiva quell’ordine da tredici anni. Scoperto l’arcano: la corona non è pronta, troppo tardi per ricorrere ad altri punti vendita, la corona verrà posizionata domattina presso il Cippo. Chiarito il giallo, l’assessore Renzetti lo spiega alla Dirigente scolastica, ma intanto qualcuno dei genitori e dei presenti ascolta, sente, e comincia a divulgare, a modo suo. ‘Ma guarda questi, manco una corona per onorare i partigiani hanno fatto arrivare’; ‘Si vede che è un governo di destra, vergogna’; e poi arriva l’urlo: una giovane donna, una biondina, che portava sotto il braccio la nonna, e sbraita: ‘Mio nonno era partigiano, ha fatto la guerra, mia nonna ha diritto di partecipare a questa cerimonia, ha diritto a vedere la corona, vi dovete vergognare’. Era in effetti la più esagitata, tra centinaia di bambini che di quella corona non avevano capito nulla, e in realtà non vedevano l’ora di chiudere la formalità nel giardino della scuola per entrare nella palestra e far vedere a nonni e genitori l’iniziativa che avevano organizzato, con canti, balli e recite. Mi giro, vedo quella donna agitata, la riconosco: era stata una mia collega di università, a Pescara, stessa età, una cattedra, mi pare, in un Istituto scolastico religioso. Figlia peraltro di una dipendente del Comune ormai in pensione che ben conoscevo, e lei mi conosce ormai da una vita, entrambe, mamma e figlia, dalfonsiane di ferro della prima ora, e figlia con incarico fiduciario all’epoca di D’Alfonsosindaco. Quando incontro i suoi occhi le spiego il ‘disguido, ha sbagliato l’Economato e ha ordinato la corona per domattina. Non dovrebbe accadere, ma può accadere’. Mi volto per raggiungere bambini e assessore in palestra e lì mi sento urlare alle spalle: ‘Fascista, sei una fascista pure tu, ti devi solo vergognare, vattene da qui fascista’. Io? E perché? Perché un Ufficio si è dimenticato di far arrivare una Corona? E io che c’entro? Ovviamente la circostanza, il luogo e il mio incarico non mi hanno permesso di reagire. In quel momento, in quel clima di tensione, non avrebbe fatto bene né all’assessore che accompagnavo, né all’amministrazione che, pure, nel mio piccolo, rappresentavo, né alla mia stessa immagine. Ma in quel preciso istante, in quel giorno esatto ho capito il clima d’odio che circondava l’amministrazione comunale per la quale lavoravo. E non un odio per aver approvato qualche atto contro la città, che so, un aumento delle tasse, una stangata sui parcheggi, l’aver tolto la casa popolare o l’assistenza a qualcuno. No, l’odio era dettato semplicemente dal fatto di essere un governo di centro-destra e di aver preso il posto di qualcuno rimosso dalla magistratura, e non dalla politica. In quel ‘fascista’ c’era racchiusa la volontà di scatenare una reazione quasi popolare degli altri presenti, sperando magari che qualcuno portasse avanti quelle urla e le ripetesse, c’era la volontà di vederci andar via senza partecipare alla manifestazione, c’era quasi la volontà di vedere arrivare un’orda di partigiani della Brigata Maiella che potessero magari impiccarci dinanzi al Cippo. Ovviamente non è successo, fortunatamente gli altri presenti avevano un livello culturale molto più elevato della urlatrice, ma da quel giorno ho personalmente smesso di celebrare partigiani e ricorrenze partigiane, almeno a Pescara non ce ne sono le condizioni. Ovviamente l’episodio della urlatrice non è finito lì: tornata in ufficio ho recuperato il numero di telefono di casa della mamma, che ben conoscevo. Le ho ricordato chi ero, le ho spiegato cos’era successo, con un’unica preghiera: insegnare l’educazione alla figlia, sia chiaro, non una ‘buona educazione’, ma esclusivamente una ‘educazione’, una qualsiasi. Ovviamente l’ex dipendente del Comune si è scusata, scongiurandomi di non querelare la figlia. Onestamente? Quelle scuse non le ho mai accettate e né le sentirò mie, perché, mi spiace, non sono della corrente secondo cui tutti i cocci rotti si possono riparare, ci sono cose che non si cancellano con delle scuse, perché non si riavvolge il nastro del tempo, ecco perché prima di aprire bocca occorre avere consapevolezza. Buona giornata!

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