Quella volta che mi
gridarono alle spalle ‘Fascista’. Era l’11 febbraio 2011, e anche questa è una
#storiadaraccontare. E ne parlo oggi perché è, in qualche modo, un
anniversario, sgradevole, ma pur sempre un anniversario. I fatti: l’11 febbraio
2011, come ogni anno dal 25 aprile 1998, l’amministrazione comunale di Pescara ha
organizzato la celebrazione e il ricordo dei 9 partigiani uccisi presso il
Cippo di Colle Pineta, dove oggi si trova la scuola denominata, dal sindaco
Carlo Pace, appunto, nel ’98, ’11 febbraio ‘44’, a perenne memoria dei 9
cittadini uccisi. Era di pomeriggio, intorno alle 15.30. Ero con l’assessore
alla Pubblica Istruzione Roberto Renzetti. Le telefonate dell’ultimo minuto
dalle auto di servizio, la chiamata agli uffici comunali per accertare che
tutto fosse pronto, che l’orario fosse quello giusto, l’avviso alla dirigente scolastica
per dire che si stava arrivando. Poi, l’ingresso dal cancello principale dell’Istituto,
ma, anziché il normale e scontato saluto, seppur di circostanza, all’assessore,
peraltro medico-chirurgo stimato all’ospedale civile di Pescara, comincia il
brusio. Un concitato brusio, prima sottovoce, poi sempre più udibile, nessuna
mano tesa per il saluto, fino a quando arriva col fiatone la dirigente e…manca
la corona che i bambini devono deporre ai piedi del Cippo con le Istituzioni al
seguito. Vabbè, il fiorista sarà in ritardo, avrà sbagliato scuola, sarà
bloccato nel traffico dell’uscita dalle scuole, sarà per strada. No, no: manca
proprio la corona. Vabbè, telefoniamo alla segreteria del sindaco, sicuramente
ne sapranno di più, perché non è possibile che manchi la corona per una
cerimonia che si svolge ogni anno, sempre uguale, sempre nella stessa scuola,
sempre con lo stesso fiorista, dal 1998, ossia, all’epoca, da tredici anni. La
segreteria del sindaco esegue un piccolo controllo: la corona è stata ordinata,
è stata pagata, dev’esserci per forza. La telefonata alla segretaria dell’assessore
Renzetti: la corona è stata ordinata, è stata pagata, dev’esserci per forza. Ma
la corona non c’è. E allora, la segretaria dell’assessore scende nell’ufficio
dell’Economato del Comune, il luogo per eccellenza da cui partivano e partono
gli ordini per la minuta spesa e che, materialmente, aveva e ha l’onere di far
arrivare fiori, piante, e altre bazzecole di minimi importi. Un
Economato-roccaforte dalfonsesca, ed è qui che emerge l’intoppo: sì, sì, la
corona è stata ordinata, è stata pagata, ma…la cerimonia non era domattina (il
12 febbraio, per una scuola che si chiama ‘11 febbraio’?!). Ecco, il povero
fiorista sapeva di doverla portare, ma sul mandato dell’Economato c’era scritto
il 12 febbraio, anziché l’11, mandato anch’esso firmato da un’altra dipendente,
oggi pensionata, anche lei, guarda caso, puntadidiamante dalfonsiana, che pure
eseguiva quell’ordine da tredici anni. Scoperto l’arcano: la corona non è
pronta, troppo tardi per ricorrere ad altri punti vendita, la corona verrà
posizionata domattina presso il Cippo. Chiarito il giallo, l’assessore Renzetti
lo spiega alla Dirigente scolastica, ma intanto qualcuno dei genitori e dei
presenti ascolta, sente, e comincia a divulgare, a modo suo. ‘Ma guarda questi,
manco una corona per onorare i partigiani hanno fatto arrivare’; ‘Si vede che è
un governo di destra, vergogna’; e poi arriva l’urlo: una giovane donna, una
biondina, che portava sotto il braccio la nonna, e sbraita: ‘Mio nonno era
partigiano, ha fatto la guerra, mia nonna ha diritto di partecipare a questa
cerimonia, ha diritto a vedere la corona, vi dovete vergognare’. Era in effetti
la più esagitata, tra centinaia di bambini che di quella corona non avevano
capito nulla, e in realtà non vedevano l’ora di chiudere la formalità nel
giardino della scuola per entrare nella palestra e far vedere a nonni e
genitori l’iniziativa che avevano organizzato, con canti, balli e recite. Mi
giro, vedo quella donna agitata, la riconosco: era stata una mia collega di
università, a Pescara, stessa età, una cattedra, mi pare, in un Istituto
scolastico religioso. Figlia peraltro di una dipendente del Comune ormai in
pensione che ben conoscevo, e lei mi conosce ormai da una vita, entrambe, mamma
e figlia, dalfonsiane di ferro della prima ora, e figlia con incarico
fiduciario all’epoca di D’Alfonsosindaco. Quando incontro i suoi occhi le
spiego il ‘disguido, ha sbagliato l’Economato e ha ordinato la corona per
domattina. Non dovrebbe accadere, ma può accadere’. Mi volto per raggiungere
bambini e assessore in palestra e lì mi sento urlare alle spalle: ‘Fascista,
sei una fascista pure tu, ti devi solo vergognare, vattene da qui fascista’. Io?
E perché? Perché un Ufficio si è dimenticato di far arrivare una Corona? E io
che c’entro? Ovviamente la circostanza, il luogo e il mio incarico non mi hanno
permesso di reagire. In quel momento, in quel clima di tensione, non avrebbe
fatto bene né all’assessore che accompagnavo, né all’amministrazione che, pure,
nel mio piccolo, rappresentavo, né alla mia stessa immagine. Ma in quel preciso
istante, in quel giorno esatto ho capito il clima d’odio che circondava l’amministrazione
comunale per la quale lavoravo. E non un odio per aver approvato qualche atto
contro la città, che so, un aumento delle tasse, una stangata sui parcheggi, l’aver
tolto la casa popolare o l’assistenza a qualcuno. No, l’odio era dettato
semplicemente dal fatto di essere un governo di centro-destra e di aver preso
il posto di qualcuno rimosso dalla magistratura, e non dalla politica. In quel ‘fascista’
c’era racchiusa la volontà di scatenare una reazione quasi popolare degli altri
presenti, sperando magari che qualcuno portasse avanti quelle urla e le
ripetesse, c’era la volontà di vederci andar via senza partecipare alla
manifestazione, c’era quasi la volontà di vedere arrivare un’orda di partigiani
della Brigata Maiella che potessero magari impiccarci dinanzi al Cippo.
Ovviamente non è successo, fortunatamente gli altri presenti avevano un livello
culturale molto più elevato della urlatrice, ma da quel giorno ho personalmente
smesso di celebrare partigiani e ricorrenze partigiane, almeno a Pescara non ce
ne sono le condizioni. Ovviamente l’episodio della urlatrice non è finito lì:
tornata in ufficio ho recuperato il numero di telefono di casa della mamma, che
ben conoscevo. Le ho ricordato chi ero, le ho spiegato cos’era successo, con un’unica
preghiera: insegnare l’educazione alla figlia, sia chiaro, non una ‘buona
educazione’, ma esclusivamente una ‘educazione’, una qualsiasi. Ovviamente l’ex
dipendente del Comune si è scusata, scongiurandomi di non querelare la figlia.
Onestamente? Quelle scuse non le ho mai accettate e né le sentirò mie, perché,
mi spiace, non sono della corrente secondo cui tutti i cocci rotti si possono
riparare, ci sono cose che non si cancellano con delle scuse, perché non si
riavvolge il nastro del tempo, ecco perché prima di aprire bocca occorre avere
consapevolezza. Buona giornata!
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