La
politica non deve mai creare inutili attese, né tantomeno false illusioni. E
già qui mi aspetto chi allarghi le braccia e dica ‘eh sì, allora non saremmo in
Italia’. E ha ragione. Ma stamane non ho potuto evitare questa riflessione
dinanzi alla delibera approvata dal Consiglio comunale di Pescara con la quale
si è deciso di re-inviare all’esame dell’Ufficio per la Ricostruzione post-terremoto
de L’Aquila la pratica inerente il palazzo di via D’Annunzio 259-261,
dichiarato pericolante, inagibile, evacuato dalla precedente amministrazione,
per danni che i proprietari dell’edificio, 34 famiglie, imputano al terremoto
del 6 aprile 2009, nonostante il parere negativo già espresso dall’Ufficio
comunale preposto, il quale ha attribuito l’inagibilità dell’edificio a
problematiche ben più ‘vecchie’. Ecco, oggi il Consiglio comunale ha creato una
inutile attesa e una falsa illusione a 34 cittadini. I fatti: era il settembre
2009, dunque 5 mesi dopo il terribile terremoto de L’Aquila e appena tre mesi
dopo l’insediamento della giunta Albore Mascia-assessore alla Protezione civile
e al contenzioso Berardino Fiorilli. Negli uffici dell’amministrazione comunale
arriva la classica patata bollente, ossia la pratica inerente la situazione
statica di un fabbricato di 10 piani, situato nel bel mezzo del quartiere signorile
di Porta Nuova, in via Gabriele D’Annunzio. Le denunce fatte da alcuni dei
residenti del Palazzo, supportate dalle perizie di 4 ingegneri, affermano che
il Palazzo è sul punto di crollare, a causa di un cedimento che, i residenti,
fanno risalire alla scossa di terremoto della notte del 6 aprile. La priorità è
massima: il Capo Dipartimento, l’ingegner Amedeo D’Aurelio, costituisce subito
un gruppo di lavoro comunale che vede la presenza di geologi, architetti,
ingegneri, a partire dai professionisti dell’Ufficio Protezione civile, per
raccogliere le carte e capire cosa stia effettivamente accadendo, per
intervenire con tempestività ma pur sempre senza scatenare il panico. Viene
ovviamente informato l’assessore delegato, gli uffici cominciano a leggere i
documenti, cercando di ricostruire la storia di quel fabbricato enorme, e
spuntano i primi ‘ma’ circa l’inagibilità dell’edificio. Il ‘palazzone’ di via
D’Annunzio è stato costruito tra il 1962 e il 1963 e, primo punto, sembra che
inizialmente fossero previsti e autorizzati, in concessione edilizia, 7 piani.
Eppure oggi ne spuntano 10 di livelli, e allora da dove sono saltati fuori i
tre piani in eccesso? Niente, niente carte. Poi: da vecchie relazioni raccolte
e rintracciate, si accerta che il fabbricato ha subito presentato dei problemi
di staticità, con ‘un’inclinazione dello spigolo nord-est per il cedimento del
terreno di sedime su cui poggia’ come riportato in una relazione del 1988,
ossia risalente a 27 anni fa, quindi 21 anni prima del terremoto del 6 aprile
2009! I tecnici hanno continuato a studiare, a cercare, ma di fatto il
risultato è stato nullo: di quel fabbricato, così come degli edifici più ‘vecchi’
di Pescara, non esiste il Fascicolo storico, oggi divenuto obbligatorio, quindi
non è possibile stabilire con certezza nulla, né l’entità dei danni del 1963, nè
quelli eventualmente causati dal terremoto del 2009. Si sa però che già nel 1988,
dunque 21 anni prima del terremoto, si era evidenziato il cedimento dell’angolo
nord-est dell’intero edificio; e si sa che ai tempi della costruzione, erano
stati previsti e autorizzati 7 piani e non 10. Ovviamente il trascorrere del
tempo, le fasi di assestamento naturale del terreno, dopo 53 anni, hanno
inevitabilmente aggravato la situazione, rendendo ormai inabitabile quel
fabbricato e imponendo, nel 2013, l’ordinanza di sgombero dell’edificio. Ma, ed
è qui che subentra il giudizio tecnico su cui la politica non deve, o meglio,
non dovrebbe mai interferire, il gruppo di lavoro costituito in Comune non
avalla il danno post-terremoto, o meglio: quella relazione del 1988 impedisce
ai tecnici di attribuire la causa dell’inagibilità del palazzone al terremoto
del 6 aprile 2009. E ovviamente quel parere negativo ha rappresentato una
doccia gelata per 34 famiglie costrette a lasciare la propria casa, alcune
delle quali ancora impelagate con il pagamento del mutuo contratto per comprarla,
perché nel frattempo molti di quegli appartamenti, negli anni, hanno anche
cambiato molti proprietari e forse la continua compra-vendita di alloggi tutto
sommato situati in un bel palazzo, signorile, in una bella strada della città, avrebbe
dovuto suggerire una maggiore prudenza ai sempre nuovi acquirenti. Ma tant’è!
Quel parere è stato una doccia gelata perché quei residenti-proprietari
speravano che i tecnici confermassero la causa post-terremoto e di poter quindi
essere ammessi al contributo dell’Ufficio per la Ricostruzione e di poter
usufruire della copertura intera dei costi di demolizione dell’edificio e di
una copertura parziale per la ricostruzione delle loro case. Aspettativa più
che legittima in persone normali, che si vedono tolto il tetto da sopra la
testa perché quel tetto rischia di crollargli sulla stessa testa. Ma la
politica, quella onesta, non può avallare legittime, ma inutili, aspettative.
All’epoca gli Uffici del Comune inviarono a L’Aquila la pratica, ma
inevitabilmente, per onestà, non poterono certificare che il cedimento del
palazzo era stato causato dal terremoto, e piuttosto, sempre per onestà,
allegarono tutte le carte rintracciate. E ovviamente, sino a oggi, i residenti
del Palazzo non sono stati ammessi ai contributi dell’Ufficio per la
Ricostruzione. Una pillola amara che ovviamente i residenti non hanno mai
mandato giù, attribuendo la colpa alla politica. In realtà la politica, in
quell’occasione, ha fatto esattamente il proprio lavoro: ha tutelato la
sicurezza e la salute dei cittadini residenti nel palazzo a rischio crollo; ha
aiutato, chi non aveva mezzi, a trovare una nuova sistemazione attingendo,
ovviamente, agli alloggi popolari disponibili; e soprattutto, la politica non
ha interferito con il lavoro della macchina tecnica, riconoscendone la libertà
di azione e la legittimità di giudizio obiettivo, senza strizzamenti d’occhio né
tirature di giacchette. Ma questo, ovviamente, non è piaciuto. Oggi però la
novità: il Consiglio comunale, su delibera proposta dal vicesindaco, ha
nuovamente deciso di rinviare il fascicolo del Palazzo di via D’Annunzio all’esame
dell’Ufficio della Ricostruzione, con tutti i documenti allegati, decisione
ovviamente votata all’unanimità, ed è normale, perché qualcuno avrebbe dovuto
dare parere negativo e addossarsene, nuovamente, la responsabilità agli occhi
di cittadini che votano. Ma, mi chiedo io, per fare cosa? Sperare in una rivisitazione
della pratica e quindi in un riconoscimento circa l’origine dei danni? E perché
oggi la valutazione dovrebbe essere diversa da quella di due anni fa, se le
carte sono sempre le stesse? Ecco oggi, a mio giudizio, si sono create le basi
per dare ‘false aspettative’ a 34 famiglie che giustamente vivono un dramma,
famiglie che però non vanno illuse, nonostante il dramma, e piuttosto vanno
aiutate ad andare avanti, a farsi una ragione di quanto accaduto, e cercare di
superare il momento. Per tutto c’è poi il mio ricordo personale del Palazzone
di via D’Annunzio 259-261: era il 1998, una mia amica-studentessa universitaria
di Lingue, originaria del teramano, fuori sede, prende in affitto una stanza,
con altre colleghe, proprio nell’edificio, terzo piano. Ricordo la sensazione
quando entrai nell’ascensore per raggiungere il suo appartamento, come se ci
librassimo nel vuoto; peggio ancora quando siamo entrati nella casa e la forza
di gravità, penso, ci ha spinti verso l’angolo nord-est del palazzo. Che quell’edificio
fosse letteralmente appeso da un lato era evidente a tutti: bastava mettere a
terra un bicchiere con dell’acqua e subito si capiva che il liquido andava in
sospensione sul lato della pendenza. La mia amica ha cambiato casa dopo
quindici giorni. Buona giornata!
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